Ci chiediamo mai come sia la vita in stato di detenzione? E’ possibile che le difficoltà che vivono i detenuti possano essere almeno in parte simili a chi sta fuori dal carcere?
Certamente a fronte di un reato commesso è giusto pagare le conseguenze del proprio agito ma, di fatto, il detenuto viene privato della propria libertà, della propria privacy, si scatenano in lui sentimenti come la rabbia, la paura o il dolore a fronte di una condizione, quella carceraria appunto, che lo allontana dalla propria famiglia e dai propri affetti.
Il detenuto, il cattivo, alla fine altro non è che una persona con dei limiti e delle fragilità esattamente come la persona buona che sta al di fuori del carcere.
L’intento non è certamente quello di giustificare o difendere il detenuto che, come detto, a fronte di un reato commesso paga la sua pena attraverso la detenzione. Tuttavia è altrettanto vero che intorno a noi costruiamo barriere di pregiudizi che limitano le nostre convinzioni e che ci portano a pensare che il detenuto sia cattivo anche quando terminerà di pagare la sua pena.
Allora, quanto sarà facile la sua vita una volta uscito? Come verrà accettato dalla società e come sarà il suo reintegro nella stessa? Come potrà vivere i legami affettivi e familiari così bruscamente interrotti?
Il carcere è, o per lo meno dovrebbe essere, un luogo rieducativo e risocializzante dove la pena ha diverse funzioni tra cui la difesa sociale, è un deterrente a delinquere e prevenzione della delinquenza. In ogni caso affinché la pena detentiva abbia un valore rieducativo e risocializzante diventa fondamentale restituire al detenuto dignità, rispetto di sé, degli altri e della società in cui verrà nuovamente inserito a fine pena.
Ecco allora che diventano fondamentali percorsi formativi, scolastici, educativi e psicologici per rafforzare anche le capacità relazionali evidentemente compromesse; considerare dunque la vita in carcere come opportunità di riscatto.
In questo contesto come possono essere vissute e mantenute le relazioni familiari?
Che possibilità ha un genitore detenuto di mantenere il proprio ruolo e la propria responsabilità genitoriale? Come sarà, una volta uscito, riallacciare i legami con i propri figli e la propria famiglia? Il genitore è diventato un cattivo che deve rinunciare a tutto questo?
Con l’evento della detenzione le relazioni genitoriali cambiano così come i ruoli e le funzioni tra i genitori che si devono inevitabilmente riorganizzare andando così a “colpire” non solo il genitore che dovrà scontare la sua pena ma l’intero sistema famiglia, alterandone funzionamento e stabilità. È chiaro che in questo contesto chi più di tutti va tutelato è il minore che continuerà ad avere il diritto ad avere un padre o una madre e che non dovrà scontare la pena che invece coinvolge e riguarda unicamente il genitore detenuto.
La Carta dei figli dei genitori detenuti riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità.
Fondamentale diviene il contributo di cooperative e associazioni che all’interno del carcere mirano a tutelare questi legami attraverso colloqui e visite a misura di bambino oltre al sostegno genitoriale che il detenuto potrà ricevere singolarmente.
Se questo è ciò che il genitore detenuto può ricevere all’interno del carcere, all’interno di un contesto che in ogni caso resta restrittivo e fatto di regole e tempi imposti, come saranno i legami una volta rientrato in famiglia? Come sarà lo stare nelle relazioni familiari?
Se domandiamo al genitore detenuto come immagina il suo rientro a casa emergono nelle risposte vissuti di gioia ma anche preoccupazione riferita a ciò che può essersi perso della vita familiare durante la sua detenzione. Se invece gli viene chiesto come immagina che gli altri possano vivere il suo rientro, la risposta è un grande interrogativo che rappresenta la difficoltà di immedesimarsi negli altri, la fatica di mettersi nei panni di un figlio o di una compagna che devono riorganizzare nuovamente le proprie vite. Una difficoltà dunque a riconoscere la reciprocità che caratterizza le relazioni, riconoscere che l’altro ha dei bisogni che sono importanti tanto quanto i propri.
Se l’ingresso in carcere del genitore detenuto è stato sicuramente traumatico e di difficile gestione per il sistema famiglia, in un certo senso lo è allo stesso modo anche il rientro in famiglia dopo lo sconto della pena.
Il cattivo che compie un reato, paga la sua pena perché è stato cattivo; nel frattempo il cattivo cerca in qualche modo di tutelare i rapporti familiari.
Avvicinandosi il momento dell’uscita dal carcere il cattivo comincia a interrogarsi sul suo rientro. Il cattivo cerca di recuperare i rapporti, cerca di recuperare ciò che si è perso, cerca di riallacciare relazioni interrotte. Ma questi aspetti non riguardano anche i buoni che stanno fuori dal carcere? Cercare di recuperare le relazioni, gestire i conflitti e le discussioni tipiche dei rapporti conflittuali non sono aspetti comuni tra il buono e il cattivo?
Non succede anche al buono di trovarsi in una separazione difficile in cui per svariati motivi viene drasticamente ridotta o addirittura negata la possibilità di vedere il proprio figlio? La paura della perdita dei legami familiari accomuna sia il buono che il cattivo. La difficoltà di ristabilirli accomuna entrambi. I confini a volte sono così labili che per andare oltre a pregiudizi e false credenze dovremmo chiederci: allora, chi è il cattivo e chi è il buono? O meglio, il cattivo è cattivo veramente?
Giulia Marcon
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